Ricordate il film Dark Waters di Todd Haynes del 2019 in cui Mark Ruffalo interpreta l’avvocato americano Rob Bilott? Il film narra una delle più famose e lunghe vicende giudiziarie ambientali: l’inquinamento di un’ampia area agricola e residenziale a Parkesburg, West Virginia causato dallo stabilimento in cui la Dupont produceva il teflon. Una storia che inizia nel 1998, con la morte improvvisa di capi di bestiame e la diffusione di malattie tra gli abitanti e si conclude nel 2006 con il riconoscimento della responsabilità dell’azienda che dovrà risarcire le vittime e bonificare l’area. Billot riuscirà infatti a dimostrata la relazione tra le contaminazioni di PFAS, sostanze perfluoro alchiliche, alla base appunto del teflon, e i gravi danni provocati a persone e animali. Una vicenda che negli USA ha stimolato provvedimenti legislativi importanti, ma che ha solo parzialmente coinvolto l’Europa. Eppure anche noi conosciamo bene il problema. Certamente ricorderete il caso della contaminazione dell’acqua potabile in Veneto nel 2013. Anche in questo caso all’origine vi è un’attività industriale destinata alla produzione non di tegami ma di tessuti. Una contaminazione costata milioni di euro e non ancora del tutto risolta. Il problema è quindi ben noto a livello globale ma eliminare i PFAS non sembra facile. L’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche ha recentemente dichiarato che circa 4,4 milioni di tonnellate di PFAS finiranno nell’ambiente nei prossimi 30 anni se non si intraprenderà un’azione rigorosa. La Commissione europea conta di presentare agli Stati membri entro il 2025 la bozza per il divieto globale del PFAS, ma la proposta sta incontrando resistenze da parte del mondo industriale. Intanto si procederà con una consultazione pubblica sotto l’egida dell’Echa e con una fase di valutazione scientifica. Un grido d’allarme è nel frattempo stato lanciato da un team di testate giornalistiche internazionali guidate da Le Monde che hanno raccolto dati sulle contaminazioni di suolo e acque in Europa e sulla presenza di aziende che producono/usano PFAS, Italia compresa. Insomma, non c’è da star tranquilli.
Utilizzi nel calzaturiero
Perchè questa storia riguarda le calzature? Perché per la straordinaria capacità di impermeabilizzare e proteggere dalle macchie tessuti e pelli, i PFAS sono molto usati sui prodotti che utilizziamo ogni giorno e tra questi, abbigliamento invernale e sportivo, borse e zaini e naturalmente scarpe. Relativamente a questa tipologia di prodotti preoccupano le emissioni durante i processi di produzione ma anche lo stretto contatto tra il materiale funzionalizzato e la pelle di chi lo indossa. Non è un caso che l’eliminazione dei PFC – composti perfuoroclorurati, una delle molecole chimiche della famiglia PFAS più diffusa negli articoli moda – è stato obiettivo privilegiato della campagna Detox my fashion di Greenpeace. Nel frattempo molte imprese produttrici di PFAS hanno ridotto la catena chimica da 8 atomi di carbonio a 6 ma questa soluzione non è ritenuta risolutiva.
Cosa stanno facendo imprese e brand?
In attesa che gli Stati mettano fuori legge i PFAS, cosa che difficilmente avverrà prima del 2025, spetta ai consumatori orientarsi nel mercato dei prodotti fashion scegliendo quelli più sicuri e alle aziende sperimentare soluzioni che garantiscano le performance di impermeabilizzazione senza nuocere alla salute e all’ambiente. Tenere d’occhio le strategie dei brand è pertanto importante.
Partiamo da Gore-tex, la più famosa delle aziende produttrice di tessuti impermeabilizzati (e traspiranti) per uso outdoor. Già nel 2017 si era impegnata a ridurre progressivamente fino ad eliminare i PFC dai tessuti. Recentemente ha presentato la membrana Gore-tex ePE in polietilene espanso, molto leggera e sottile, ma in grado comunque di garantire una resistenza elevata alla sollecitazione e una lunga durata nel tempo. Il brand ne sottolinea il contenuto ecologico, essendo realizzata con tessuti selezionati, riciclati e tinti in massa, procedura che permette di risparmiare fino al 90% di acqua rispetto ai metodi di tintura tradizionali.
La francese Salomon (che dal 2016 ha aderito alla Sustainable Apparel Coalition per la riduzione delle sostanze chimiche critiche) dichiara di produrre calzature PFC free dal 2020 e sta lavorando per eliminare le sostanze critiche dall’abbigliamento entro il 2025.
Impegno a eliminare del tutto i PFC entro il 2025 anche per la svizzera Mammut che ha partecipato fin dall’inizio al progetto di ricerca POPFREE condotto dagli istituti di ricerca svedesi (RISE). Salewa è un marchio dell’azienda altoadesina Oberalp famoso nell’abbigliamento da montagna e per la collaborazione con alpinisti come Reinhold Messner e Kurt Alber. L’impegno per eliminare i PFC nasce nel 2014 con il passaggio da membrane C8 a C6 fino ad arrivare alla totale eliminazione dei PFAS. L’azienda effettua controlli costanti sui materiali e sui prodotti finiti.
Cosa sono i PFAS e perché sono pericolosi?
L’ECha, l’agenzia chimica europea responsabile del Reach, le definisce una vasta classe di migliaia di sostanze chimiche che contengono legami carbonio-fluoro, tra i più forti nella chimica organica, per questo sono così resistenti al degrado durante l’uso e permangono per molti anni nell’ambiente. La maggior parte dei PFAS è anche facilmente trasportabile nell’ambiente percorrendo lunghe distanze dalla fonte del loro rilascio, contaminando le acque sotterranee e superficiali e il suolo tanto da entrare nella catena alimentare umana. La bonifica dei siti inquinati è tecnicamente difficile e costosa. Gli effetti sulla salute non sono cosa di poco conto: sono sostanze bioaccumulanti, possono generare sterilità, danneggiare lo sviluppo dei feti ed interferire con il sistema endocrino (ormonale) umano. Possono essere cancerogene.