Scarpe che raccontano una storia

Terra nelle scarpe
Terra nelle scarpe
Quando una scarpa è rotta che si fa? Si butta. Nella nostra società funziona così da almeno 70 anni. Prima no, prima si aggiustavano e solo i ricchi potevano vantarne più di un paio: gli altri giravano sempre con le stesse scarpe, estate e inverno. Se potesse parlare, chi ci accompagna nel nostro cammino, in senso materiale ma anche in senso simbolico, ne avrebbe molte da raccontare!

E l’idea di far “parlare” le scarpe è venuta a un giornalista vicentino, artista e regista, che due anni fa ha ideato una mostra itinerante unica in Italia e forse nel mondo, dal titolo “Terra nelle scarpe”. È lo stesso Antonio Gregolin a raccontare a Tecnica Calzaturiera lo spirito dell’iniziativa che dopo alcune esposizioni nel Veneto è approdata anche a Milano a palazzo Isimbardi, sede della Provincia, per poi continuare ad aggiornare con costanza i propri sostenitori dalla pagina Facebook dedicata all’iniziativa (http://on.fb.me/1rrcZFh).

Antonio Gregolin
Antonio Gregolin
«Le scarpe degli altri hanno sempre girato molto per casa mia. Sono figlio e nipote di calzolai: in anni difficili papà Angelo e nonno Fedele avevano fatto dell’arte di aggiustare le scarpe una professione. Un mestiere, quello del ciabattino, utile ma umile al punto che mia madre, di famiglia benestante, venne quasi ripudiata quando dichiarò di essersi innamorata dello “scarparo” del paese, come in una storia d’altri tempi».
Ma non è l’atmosfera familiare delle calzature ad aver ispirato Gregolin a inventarsi questa mostra, a quanto pare l’unica del suo genere: dopo il suo progetto artistico “Occhi di terra” e lo spettacolo musicale “Voci di terra” in cui sette musicisti suonano 27 strumenti (tribali ma anche modernissimi), ha proseguito nel richiamo della terra ispirandosi a ciò che ci permette di andare avanti (fisicamente e quindi anche metaforicamente) nell’accidentato cammino della vita.
Non solo nomi noti ma anche persone comuni
«Il tempo delle scarpe e la storia degli uomini», come Antonio Gregolin ha sottotitolato la mostra, ha come obiettivo di mostrare come simbolo le scarpe di persone che hanno lasciato il segno su questa terra: «Le ho raccolte e continuo a farlo, da gente famosa e da persone comuni; niente di feticistico, nessun richiamo alla moda, ma solo al vissuto personale, perché hanno tutte il denominatore comune di avere una storia da raccontare». Così accanto alle calzature di Ermanno Olmi, Moni Ovadia, Mario Rigoni Stern, Marco Paolini, compaiono suole e scarponi militari italiani e austriaci della Grande Guerra. Scarpe liturgiche armene“Pianelle” in corda in uso nei monasteri di clausura fatte a mano da loro stesse e mai esposte prima. Ancora, zoccoli sopravvissuti ai lager nazisti. Le prime scarpe da bambino in gomma portate dagli americani nel ’45. I mocassini dei preti di campagna come don Camillo, o più recentemente le scarpe di chi ha attraversato il Sahara prima di finire su un barcone della speranza, infranto sugli scogli di Lampedusa.
Sono un’ottantina, riunite a paia o singole, perché non sempre si ha la fortuna di trovarle accoppiate: spesso, spiega il curatore della mostra, buttiamo anche le calzature che per noi hanno significato qualcosa, perché brutte, inservibili, difficilmente regalabili. «Così ho scoperto che lo scrittore Mario Rigoni Stern si era disfatto dei suoi scarponi militari con cui aveva percorso a piedi la Russia nella drammatica ritirata: non se l’era sentito di tenerli ancora, gli ricordavano tanto dolore. Quando poi chiesi le calzature che aveva indossato il poeta Andrea Zanzotto, i familiari dispiaciuti mi risposero di averle donate tutte alla Caritas».
Le prime scarpe acquisite per la mostra sono state quelle del pilota Alex Zanardi: «Chi meglio di lui sa cosa significhi imparare nuovamente a camminare?». Poi ci sono le calzature di Jean Beliveau, il canadese da Guinness dei primati per aver fatto in 11 anni il giro del mondo a piedi: «Le sue scarpe, un paio delle 15 usate, hanno molto da raccontare avendo percorso duemila chilometri tra Nepal e Cina».
Ad aver calcato molto la terra sono anche le scarpe di Giovanni Bruttomesso, un vicentino che a 63 anni ha deciso di vestire i panni del pellegrino di un tempo. Racconta Gregolin: «Ha percorso 5.700 km da Canterbury a Gerusalemme, via Roma, per tre volte il cammino di Santiago di Compostela e ora sta facendo un cammino induista di 850 km in India. Per lui le scarpe sono il miglior alleato. Se ti tradiscono, il camminare diventa un incubo».
Le scarpe degli immigrati a Lampedusa
Le scarpe degli immigrati a Lampedusa
«Indro Montanelli amava dire che per essere buoni giornalisti bisogna consumare le scarpe. Ho quindi cercato gli inviati, i giornalistiche più degli altri le hanno consumate. Toni Capuozzo del Tg5 mi ha dato gli stivaletti che portava in Libia durante la rivoluzione e l’inviato di guerra del Corriere della sera Ettore Mole mi ha dato le calzature indossate in Afghanistan».
E ancora in mostra “parlano” le scarpe ricercate della badessa e quelle molto più umili della semplice monaca (anni Quaranta), le scarpe indossate dopo il lager da Enrico Vanzini, l’ultimo sonderkommando italiano. Gli zoccoli che salvarono un internato dal congelamento. Come gli scarponi di Roberto Bassi che tra il 1971 e il ‘73 percorse a piedi la distanza Roma-Tokyo per onorare l’impresa di un suo conterraneo aviatore che per primo trasvolò in aereo e senza alcuna fermata fino in Giappone, e per questo venne ricevuto con tutti gli onori dall’imperatore del Giappone.
«Lo scrittore Mauro Corona mi ha offerto le calzature di quand’era ragazzo e il drammaturgo Marco Paolini quelle che abitualmente usa per lavorare nel suo orto: le scarpe che mi danno da mangiare, mi ha spiegato». Sì perché spesso sono gli stessi proprietari delle scarpe a corredarle di un foglietto, una foto, due parole sul significato di questo dono che spesso è costituito da oggetti brutti, rotti, consumati”. Così il regista Ermanno Olmi unisce alle sue scarpe da calcio del 1940 una spiegazione personale e al contempo poetica: da ragazzo aveva due grandi sogni, fare il calciatore e fare il regista. Il secondo è andato in porto, il primo è rimasto un sogno.
Scarponi soldati italiani della Prima Guerra Mondiale
Scarponi soldati italiani della Prima Guerra Mondiale
«Aspetto le scarpe di Ennio Morricone, quelle dei deportati istriani conservate al Magazzino 21 di Trieste e i calzettoni dell’astronauta Franco Malerba, le sole calzature usate in orbita. Mi sarebbero piaciute le scarpe di Nelson Mandela, di cui ho contattato uno dei figli; e vorrei quelle del presidente dell’Uruguay José Mujica». Antonio Gregolin ricorda le difficoltà burocratiche per entrare in possesso di un altro significativo simbolo dei giorni nostri, lo sbarco degli immigrati. «Dopo mesi di tentativi ho telefonato a Giusi Nicolini sindaco di Lampedusa e lei, comprendendo il significato di “Terra nelle scarpe”, è salita personalmente su un barcone per prendere un paio di scarpe da ginnastica sporche di sabbia rossa, la sabbia del deserto attraversato per inseguire la libertà».
di Roberto Brumat
tratto da Tecnica Calzaturiera di novembre 2014

Scarpe che raccontano una storia - Ultima modifica: 2014-12-02T15:15:02+01:00 da Redazione

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