Il lusso, se fatto bene, è per sua natura sostenibile

Sustainable Luxury AcademyA fine novembre dell’anno scorso si è svolto il sesto workshop internazionale sulle attività di Luxury Retail, Operations e Supply Chain Management, ospitato dalla School of Management del Politecnico di Milano, a cui ha fatto seguito un “Think Tank”, con presentazioni aziendali e tavole rotonde sul tema della sostenibilità, organizzato dalla Sustainable Luxury Academy. E’ questa un’iniziativa nata nel giugno dello scorso anno, dalla collaborazione della School of Management con Mazars, società di revisione, e Advisory da tempo impegnata sul fronte della sostenibilità, per riunire le voci più influenti dell’industria del lusso e incidere positivamente sul mercato. Durante la sessione, tra i temi dibattuti quello di come la crescente sensibilità del consumatore verso le questioni ambientali e sociali costituisca oggi una vera sfida per le aziende che producono beni di lusso.

Ne abbiamo parlato con il Professor Alessandro Brun, direttore del Master in Global Luxury Goods and Services Management (MGLuxM) della School of Management del Politecnico di Milano e ideatore della Sustainable Luxury Academy.

Ci vuole spiegare quali sono i motivi che hanno portato alla nascita di un’Accademia del lusso sostenibile?

Non solo i consumatori, ma le imprese stesse sono molto sensibili al tema della sostenibilità. Proprio dalle aziende produttrici di beni di lusso ci è arrivata infatti la richiesta di fare formazione, di condividere le pratiche migliori, anche tra competitor, di far circolare casi di successo a cui ispirarsi, di creare un vero ecosistema in modo da dare voce alle esigenze e alle esperienze di chi realmente sta cambiando la propria organizzazione per produrre in tutta trasparenza, a basso impatto ambientale e senza sfruttamento, del pianeta e del lavoro. Scopo quindi della nostra iniziativa è costituire una sorta di osservatorio permanente che monitori quanto le aziende italiane del lusso siano effettivamente sostenibili, ma, al tempo stesso, attraverso l’organizzazione di workshop, promuova lo scambio di idee tra imprese, esperti, docenti e ricercatori, per sviluppare e diffondere questa cultura.

Come mai un’Università come la vostra ha deciso di dedicare la sua attenzione proprio al prodotto di lusso?

Sono ormai 15 anni che all’interno del Politecnico si è creato un gruppo di ricerca che si occupa del lusso. Proprio perché siamo la più importante università tecnica del Paese, non potevamo esimerci dal lavorare a sostegno di un settore in cui l’Italia ha un’indiscussa leadership. Anche se il consumatore di questi prodotti è ancora disposto a riconoscere un valore premium al prodotto lusso made in Italy e quindi, in parte, a ripagare un costo derivato da salari più elevati, ritengo fondamentale che questo segmento sia in grado di garantire al mercato il meglio che le nostre competenze e le nostre filiere possono offrire. Da qui l’idea di fare ricerca e formazione su scala globale sul lusso. E qui rientra anche il tema della sostenibilità, anche se, a dire il vero, la fascia dei prodotti di lusso è proprio quella che, per sua stessa natura, ha più rispetto dell’ambiente e delle persone. Un prodotto di lusso italiano, oltre a essere fatto in Italia con il rispetto di regole molto restrittive, non passando di moda dal punto di vista estetico, e durando di più per la sua qualità superiore, alla fine, impatta cento volte meno sull’ambiente di altri prodotti che costano poco, ma inquinano pesantemente oltre ad avere vita brevissima.

Il Professor Alessandro Brun
Il Professor Alessandro Brun

Verso quali aspetti della sostenibilità – economica, ambientale, sociale – c’è da parte delle aziende del lusso una maggiore sensibilità?

In primo posto, ovviamente, la sostenibilità economica. E poi quella ambientale, che è emersa nel tempo, soprattutto per impatti più “vendibili” e utilizzabili dal punto di vista del marketing e della comunicazione, come l’impronta di CO2 o l’utilizzo di energie rinnovabili, aspetti più misurabili, documentabili e abbastanza facilmente tracciabili. Ma questo rappresenta solo l’inizio: se le aziende del lusso vogliono svolgere il ruolo di apripista, devono essere avanti alle altre su tutti i fronti, compreso quindi quello sociale. La domanda che dovrebbero farsi è se stanno creando lavoro e benessere in tutti gli anelli di filiera. Noi possiamo essere leader nella pelletteria in Italia, non solo nelle lavorazioni ma anche nel prodotto finito, ma a monte alcune materie prime, come per esempio quelle esotiche, provengono necessariamente da Paesi diversi dal nostro. All’incontro internazionale che si è tenuto a novembre, Elisabetta Illy della Ong Manus Loci ci ha raccontato di avere incontrato le comunità degli allevatori di coccodrilli che lavorano per Hermes. Questi animali hanno bisogno di molto spazio per vivere perché altrimenti si azzannano uno con l’altro rovinando le loro pelli e per questo motivo c’è un villaggio intero che vive occupandosi di questi coccodrilli. Se vogliamo leggere il lusso e la sua filiera a monte in modo positivo, i pochi che comprano i prodotti di Hermes fatti di coccodrillo, tengono su l’economia di un intero villaggio. Se fatto bene, anche dal punto di sociale, il lusso è quindi socialmente sostenibile.

Quali sono, secondo lei i principali fattori che determinano il successo di un progetto di sostenibilità?

In Politecnico abbiamo fatto una ricerca scientifica, che verrà pubblicata a breve, in cui mettiamo in evidenza quali sono i fattori in gioco che permettono, od ostacolano, il successo di progetti di sostenibilità. Dalla nostra analisi, per quelle poche aziende che ci hanno creduto veramente, la sostenibilità ha fatto davvero la differenza. Dietro a ogni progetto che ha avuto successo innanzitutto ci sono le persone che ci hanno creduto. La testimonianza più toccante durante il meeting internazionale è stata quella del Professor Donald Huising dagli Stati Uniti che collaborerà con noi per sei mesi. è un energetico ottantenne che ha iniziato a insegnare nel 1955, lavorato in 80 paesi, ed è il fondatore e editor-in-chief della rivista scientifica “Journal of Cleaner Production” che ha pubblicato centinaia di paper sui metodi di produzione più puliti. Ci ha raccontato alcune cose fantastiche che ha avuto modo di vedere, ma anche lo stato di disagio, povertà e fame in cui vivono le popolazioni di alcuni Paesi dove ha lavorato. è chiaro che un manager ha come priorità gli obiettivi di profittabilità dell’azienda, ma se ha a cuore l’intera supply chain, non può, a mio parere, non sentirsi responsabile in una certa misura di quello che sta a monte. Quindi, se appena c’è la possibilità di farlo, credo saranno sempre più le persone a spingere le proprie aziende verso l’impegno in progetti di sostenibilità, magari piccole cose, che rappresentano tuttavia luci guida.

Nei vostri incontri ci sono ostacoli nel trasferimento delle best practice da un’azienda all’altra?

La comunicazione dei contenuti dei progetti di sostenibilità è molto delicata, anche perché, per alcuni versi, può trasformarsi in un’arma a doppio taglio per un’azienda a cui può essere magari rimproverato di non averli introdotti in tutte le sue filiere a monte. Per questo motivo abbiamo creduto che ospitare in un ambiente neutrale, come l’Università, questo tipo di discorsi potesse favorire la contaminazione tra le varie aziende. Il riscontro che abbiamo avuto per ora dimostra tuttavia il contrario: le aziende, tranne alcune eccezioni, sono ancora molto titubanti a parlare apertamente dei loro progetti e questo rende a volte difficile il trasferimento delle buone pratiche.

Non tutte le aziende sono spinte verso progetti di sostenibilità. Tuttavia lo dovranno fare, se terranno conto delle esigenze del consumatore, sempre più sensibile verso la tematica…

Credo, quanto lei, che questa sia una strada obbligata, anche se non tutti i manager ci credono. Al nostro incontro internazionale sono stati due i messaggi che vanno in questa direzione. Da due anni a questa parte, nei nostri workshop coinvolgiamo gli studenti provenienti della business school di Milano e da quella londinese, creando una sessione, “next generation”, in cui offriamo loro la possibilità di tenere relazioni a un pubblico di aziende. Nel caso dell’incontro di novembre, hanno avuto l’opportunità di presentare il parere dei millennials in termini di trasparenza della supply chain, tracciabilità e sostenibilità. Dalle loro relazioni è emerso chiaramente quanto i giovani, in qualità di consumatori, siano molto attenti e sensibili rispetto a questi temi. Il secondo messaggio scioccante è stato quello di un giovane indiano, Love Ranga, che, per scrivere il libro intitolato “the Ghost of Luxury”, ha intervistato 3500 millennials in 16 Paesi diversi, chiedendo il loro parere sui prodotti di lusso e cosa si aspettino quando comprano un prodotto di questa categoria, se cioè lo scelgono per il valore intangibile del brand oppure per altri motivi. Il 61% degli intervistati ha dichiarato che vuole tornare a oggetti con un valore tangibile, come le lavorazioni fatte a mano, con la qualità dei materiali. Per questo motivo le aziende del lusso devono conferire ai loro manufatti sempre più sostanza, altrimenti, quando una grossa fetta del mercato sarà rappresentata da questi nuovi consumatori, rischiano di trovarsi spiazzate. Le parole chiave per il futuro sono quindi tracciabilità della supply chain, politiche etiche, prodotti durevoli e veramente di qualità.

A parte i consumatori, c’è una normativa, il decreto legislativo 254/2016, che stabilisce nuovi requisiti che diventeranno presto obbligatori per le aziende. Ce ne vuol parlare?

In base al decreto legislativo 254/2016, a partire dal bilancio 2017, le aziende con un numero medio di dipendenti nell’esercizio superiore a 500 e con alternativamente ricavi superiori a 40 milioni di Euro o totale di stato patrimoniale superiore a 20 milioni, saranno obbligate a fornire gli indicatori non solo finanziari a livello dell’intero gruppo. La Direttiva Europea 2014/95/UE ha richiesto infatti agli stati membri dell’Unione di introdurre un nuovo obbligo in tema di dichiarazioni di informazioni di carattere non finanziario (DNF) e di informazioni sulla diversità. Ciò che dunque fino a ora era una previsione volontaria di disclosure, adesso diventa un obbligo, a partire dai bilanci al 31 Dicembre 2017. In Italia la direttiva sopracitata è stata recepita con l’approvazione del D.Lgs.n. 254/2016 e riguarderà gli esercizi finanziari aventi inizio a partire dal 1° gennaio 2017. La DNF riguarda le informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva. La dichiarazione intende dunque proporsi come strumento fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile, coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente.

Per concludere, quali suggerimenti si sente di dare alle aziende della calzatura?

Le aziende calzaturiere italiane hanno una grande competenza e un know how che rappresentano un enorme vantaggio competitivo a livello internazionale. Lo dimostrano esempi come Ferragamo, che ha preso parte ai nostri workshop, che non solo occupa un ruolo molto importante nel mercato, ma ha innovato le calzature lasciando un segno innegabile con idee geniali. Negli anni ’30 Salvatore inventò le ormai iconiche zeppe utilizzando sughero proveniente dalla Sardegna, trasformando le vigenti restrizioni alle importazioni di materiali in un’opportunità di innovazione. Il trend di utilizzare prodotti poveri o più sostenibili, come vede, viene da lontano…

Di contro, però, la maggior parte delle aziende di questo settore soffre di quello che chiamiamo “nanismo imprenditoriale”, un difetto di molte realtà italiane. Per le nostre piccole-medio imprese intravvedo solo una possibilità: associarsi a livello di filiera, dimenticando gli individualismi. Complessivamente sono ottimista, e quindi mi aspetto che nel giro di poco tempo qualcosa cambi. Ma soprattutto che cambi la mentalità degli imprenditori, che devono imparare a mettersi insieme e collaborare. Questo avvantaggerebbe loro e l’intero comparto nel suo insieme.

Il lusso, se fatto bene, è per sua natura sostenibile - Ultima modifica: 2018-02-14T17:04:44+01:00 da Maria Pia Longo

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